Un racconto

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Fuori il caldo era insopportabile. L’arenaria del castello crepitava sotto i torridi raggi del sole di agosto che ispiravano desertici scenari nell’effetto ottico dominante il piazzale.

Nel vicino Lapidario, ricavato nelle segrete del castello, si respirava un’altra aria…umida, fresca quasi quanto quella di una grotta carsica; la pesantezza e l’oppressione qui erano di ben altro genere.

Il tempo scorreva con la lentezza di un tramonto nordico, ogni secondo uguale al precedente e al successivo, nell’immutabile scenario delle epigrafi romane, mute testimoni di quel pomeriggio afoso così simile a tanti altri.

Erano le 15.27 e la violenza dei raggi solari non accennava a placarsi…Guido Altani sedeva, il capo chino e la penna stretta nella sinistra, alla scrivania lignea che costituiva l’unico arredo della stanza che fungeva da vestibolo alla raccolta di reperti romani. Gli appunti sulla copia di “Mani” di Patrick Leigh Fermor si susseguivano veloci, intervallati da qualche rapida occhiata al ribollire della pietra appena oltre il vetro. In lotta perenne con se stesso, Altani era la classica persona che poteva scrivere su due piedi un elogio dell’inadeguatezza. Studioso convinto, laureato due volte, prima in storia dell’arte e poi in storia, arrivava sempre in anticipo agli appuntamenti ma puntualmente con qualche secondo di ritardo nelle situazioni da cogliere al volo. Per questo, dopo svariate occupazioni e svariati treni persi causa “ritardo d’autostima” si ritrovava a fare da custode al museo locale, ma non con la qualifica sicura di comunale, bensì come dipendente di una cooperativa che liquidava le sue sonnolente prestazioni in ritenuta d’acconto.

Ne’ hippye ne’ hyuppie: questo era il suo motto. Troppo per bene e pavido moralista per mollare tutto, troppo fuori dagli schemi per rientrare nel rigido meccanismo della società dei consumi e del profitto ad ogni costo. Ma oggi le pagine del romanzo che parlavano di viaggi e scoperte evocavano nuovi scenari e, forse, una dolce e definitiva rivincita.

I neon posti lungo le scale si accendevano e spegnevano ossessivamente; conducevano ai quattro ambienti espositivi ipogei e sembravano richiamare all’ordine i suoi pensieri, impedendogli di sprofondare nella concentrazione totale annullandosi e, di fatto, ripiombando nell’attesa. Proprio quei neon lo destavano dal torpore e gli suggerivano di perseguire ciò che da tempo aveva pianificato.

Altani si alzò lentamente, scese i cinquantasei gradini e raggiunse la Sala A, la più lontana dalla luce, dalla vita. Lì l’uscita di sicurezza non monitorata portava direttamente alla strada che costeggiava le mura del castello e alla piccola ma folta siepe che fungeva da riparo per i tanti gatti randagi che popolavano il colle ove era cresciuto, secoli prima, l’insediamento romano che aveva dato origine alla città. Quello era, un tempo, il centro della vita cittadina: ora invece era un eremo silenzioso che ospitava i musei dedicati ai fasti passati della città romana e medievale. Al centro della sala, su una colonna, si ergeva il busto marmoreo di un imperatore romano, forse Tito, risalente al I secolo dopo la nascita di Cristo. Ritratto in paramenti militari era davvero uno dei pezzi più rappresentativi dell’intera collezione. La corazza decorata con “gorgoneion”, la testa di Medusa, il fiero volto e il magistrale trattamento dei capelli lo avevano colpito da subito e l’occhio esperto dello storico dell’arte aveva infatti colto nel segno.

Il piano era semplice: si trattava di portare il busto oltre la porta e posizionarlo nell’aiuola per poi recuperarlo, alla fine del turno, senza il rischio di venir scoperti o accusati del furto. Infatti l’ispezione del responsabile era già passata e il continuo andirivieni di operai impegnati nel restauro di parte del castello, in gran parte provenienti dall’Est Europa, poteva giustificare il trafugamento del reperto, tanto più che non toccava a lui fare il giro di perlustazione finale ne’ chiudere le uscite a fine turno. Muoversi fu più facile del previsto: animato da quel senso di fastidiosa claustrofobia che sempre lo attanagliava lì sotto, Altani trasportò fuori il busto a fatica ma con sicurezza e lo appoggiò delicatamente tra i cespugli; quindi rientrò e richiuse immediatamente la porta alle sue spalle per evitare complicazioni. Risalendo le scale cominciava già a contare i minuti che lo separavano dalla fine della giornata lavorativa, dal recupero del busto e dall’incontro con il suo contatto che gli aveva promesso una somma considerevole per quel pezzo che, sul mercato nero, gli avrebbe poi fruttato un bel po’ di quattrini. Con quei soldi poteva finalmente lasciarsi alle spalle i dubbi e le paure e trasferirsi in qualche assolata isola dove aprire un piccolo bar e servire abbronzati clienti non oppressi dal frenetico ritmo della vita cittadina.

Riprese il suo posto alla scrivania e ricominciò a leggere ma il senso delle frasi ora scorreva vuoto. Più passavano i minuti più l’ansia aumentava così come il ritmo dei battiti del suo cuore che non era mai stato così vivo. Poi, ad un certo punto, arrivò il responsabile della sicurezza seguito dal direttore del museo…l’avevano beccato! Una vecchietta che abitava lì di fronte, madre di uno dei custodi del museo, l’aveva visto dalla finestra e aveva telefonato al castello.

Appena fuori le mura una macchina della polizia lo stava aspettando e il funzionario stava già varcando il ponte levatoio pronto a prelevarlo. Nella mente di Altani si susseguirono immagini dimenticate: dalle gite in montagna con gli amici di sempre alle partite di calcio nel giardino rionale passando per gli esami universitari. Forse proprio là, all’università, era nata la sua propensione all’attesa, alla cronica mancanza di fiducia verso gli altri e verso le proprie capacità. Per questo i suoi puntualissimi arrivi e i suoi interessati silenzi invece di metterlo in una luce positiva facevano risaltare, agli occhi del suo professore, la sua totale assenza di interessi, la sua apatia, il suo irritante atteggiamento che, pur portandolo ad ottimi risultati, faceva tutti dubitare riguardo le sue reali capacità o meglio le sue reali intenzioni.

Così, mentre attraversava il piazzale del castello ancora torrido, scortato dai magnifici fiori del cappero bianco che si erano appropriati delle mura del maniero e dalle mostrine del poliziotto rilucenti al sole come minuscoli specchi dorati, ripensava al significato del “Processo” di Franz Kafka, dove il ritmo della macchina giuridica stritolava il cittadino indifeso.

E sorrideva. Si, ora sorrideva davvero, conscio che, in una vita inadeguata e sempre vissuta in sala d’attesa, anche un fallimento, un errore, potevano tramutarsi, in realtà, in una dolce e definitiva rivincita.

Luca Bellocchi – La dolce rivincita